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immagine di campagna #100UniTS, illustrazione dell'Ateneo

Concerto del Centenario UniTS

Concerto del Centenario UniTS

Il concerto ripercorrerà musicalmente alcune tappe del ‘900 italiano con brani composti in anni particolarmente significativi per la storia dell’Ateneo triestino. L’evento, come molte altre iniziative organizzate nel contesto delle celebrazioni del Centenario, punta a portare l’Università in città per coinvolgere i cittadini triestini e i turisti in un momento conviviale e musicale che racconti il passato, il presente e il futuro di UniTS. In caso di maltempo il concerto si terrà al Teatro Lirico Giuseppe Verdi.

Roberto Di Lenarda, Magnifico Rettore, Università degli Studi di Trieste
Giuliano Polo, Sovrintendente Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi

Ottorino Respighi
Tramonto per mezzosoprano solista e archi (1912 o 14)

Alfredo Casella
Concerto per archi op. 40b (1923-24)

Ermanno Wolf-Ferrari
Festlicher Morgen dalla Suite veneziana per piccola orch. op. 18 (1936)

Luciano Berio
Folk songs (1964)

Fabio Nieder
3 unvollendete Portraits per orchestra d’archi

Riccardo Martinelli, Docente di Filosofie della musica, Università degli Studi di Trieste

Fondazione Teatro Lirico Teatri Verdi di Trieste

Giulio Prandi

Manuela Custer

Concerto del Centenario invito
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Con il contributo di:

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Concerto Centenario

Bolognese di nascita e romano di adozione, al punto che una parte non piccola della sua notorietà è legata proprio a paesaggi romani (Fontane di Roma, Pini di Roma, Feste romane), Ottorino Respighi fu musicista e uomo di grandissima cultura.

Nel volumetto filosofico intitolato Orpheus traspaiono una conoscenza e una comprensione non comuni del fenomeno musicale, opportunamente inserito nei contesti culturali di riferimento. Respighi vi analizza con acume l’ammirata musica dell’antica Grecia, il Canto gregoriano che fu – come pure il Rinascimento con le danze per Liuto – per lui fonte di ispirazione diretta, ma anche l’oriente suo contemporaneo: la Cina, il Giappone (vissuto in modo non puccinianamente manieristico), l’India.

Solo in parte si può dire che questa ricchezza culturale scompaia nella pagina di Respighi, inghiottita dalla sua sfavillante padronanza della tecnica compositiva, e in particolare orchestrale. Ciò non accade comunque in questo brano giovanile, costruito attorno a una poesia (in traduzione italiana) di Percy Bysshe Shelley, poeta romantico che ispira varie altre composizioni di Respighi. Shelley vi piange il poeta, individuo eccezionale che muore dopo un’unica notte di suprema felicità con l’amata; notte alla quale i due, in apertura del poemetto, si avviano entro uno splendido tramonto. Lei rimarrà fedele ma turbata, avviandosi parimenti negli anni a un tramontare amaro, benché sereno. La musica accompagna la vicenda accarezzandola con la riservatezza necessaria a esaltarne i contorni, senza scadere nel descrittivo ma allo stesso tempo senza chiederci di annegare nel lirismo.


La tradizione musicale italiana veniva allora da lungo periodo di identificazione pressoché totale con la vocalità e il melodramma: così era vista l’Italia musicale dall’estero, e così non di rado essa amava auto-comprendersi. Fin dal titolo di questa composizione – un Concerto – si avverte che la creazione di una musica strumentale al tempo stesso autenticamente nazionale passa attraverso il recupero della lezione settecentesca, che in questo caso è anzitutto quella di Vivaldi. Rientrato in Italia da circa un decennio dal soggiorno parigino, Casella si andava affrancando dalle avanguardie europee senza per questo interrompere un processo continuo di ricerca, che gli evitava di rinchiudersi nel guscio di un’unica cifra stilistica. A testimonianza della complessità di questo cammino, non è difficile avvertire nel Concerto atmosfere che richiamano ciò che Casella definirà il sano “empirismo” dell’amato Strawinskij, sinonimo di libertà ritmica e armonica svincolata da qualunque canone (incluso quello “atonale” di Schönberg) e aperta nel modo più radicale alla rispettosa rilettura di musiche altrui e altre, non ultime quelle popolari che balenano nella sinfonia Italia, che attrasse direttori del calibro di Mahler e Celibidache. In questo Concerto vanno senz’altro segnalate le peculiari denominazioni dei quattro movimenti: Sinfonia (qui intesa come “introduzione”) – Siciliana – Minuetto, Recitativo, Aria – e infine Canzone, riferimenti ben precisi a momenti e stilemi nazionali che la partitura ambisce a fondere in una nuovo sinfonismo. La cifra del Concerto è la sintesi meditata di una molteplicità di stili entro una scrittura vivace che si sostanzia di sperimentazioni poliritmiche e momenti di infantile semplicità, a tratti “comico-dinamica”, ma capace di preludere, come ha scritto Massimo Mila, a singolari oasi di “schiarita melodica”.


La notorietà di Ermanno Wolf-Ferrari, notevole in vita ma poi drasticamente diminuita nel dopoguerra tanto da renderlo oggi un autore di nicchia, è senza dubbio legata all’opera comica. E in effetti la sua scrittura appare immune non solo dalla preoccupazione di fondare una musica strumentale nazionale, ma anche dalla ricerca di formule che portino oltre gli schemi di un rivendicato romanticismo. Forse la doppia nazionalità anche artistica di Wolf-Ferrari, che ama citare nella stessa pagina Wagner e Verdi, gioca qui un ruolo. Quelle che ad altri parevano nuove strade tentate con coraggio ammirevole, sembrano a lui vicoli ciechi, addirittura altrettanti “suicidi” della musica che avverrebbero con Strauss, Debussy, Stravinskij (p. 58) – mentre altre e più radicali innovazioni non sono neppure menzionate nelle sue Considerazioni attuali sulla musica del 1943, con prefazione nientemeno che di Giovanni Gentile. La Suite veneziana dalla quale ascoltiamo il IV Movimento, un Andante mosso dal titolo Mattino festivo rinvia all’ulteriore matrice, lagunare, dell’ispirazione di Wolf-Ferrari: un amore per Venezia che si rivela anche nella predilezione per Carlo Goldoni, del quale musicherà Le donne curiose, I rusteghi, La vedova scaltra, Il Campiello. La Suite nel complesso non maschera un certo manierismo romantico, fin dalle titolature dei movimenti, in tedesco, che tradotti suonano: Sulla laguna; Barcarola; Notturno: canali solitari, e appunto Mattino festivo. Il lavoro è come sempre ispirato da un’inventiva melodica sicura e rasserenante. Anche nell’orchestrazione, Wolf-Ferrari si sforza di mitigare gli eccessi e soprattutto rifugge da ogni tecnicismo, rimanendo nei canoni di un’educata articolazione ottocentesca, che diviene classica senza però appesantirsi nella dimensione scolastica.


“Da ragazzo scrivevo delle false canzoni popolari” confessa Berio nell’Intervista sulla musica, spiegando come l’interesse per la musica popolare non rivesta per lui carattere occasionale ma lo abbia accompagnato costantemente nel tempo.

Il rapporto di Berio con la canzone popolare, però, non è quello riverente dell’etnomusicologo bensì – dichiaratamente – quello predatorio dell’“egoista pragmatico” (epiteto quest’ultimo caro al compositore), il quale va cercando quanto può assimilare nella sua ricerca di un’unità soggiacente a “mondi musicali apparentemente estranei l’un l’altro”. Apparentemente: nel riascoltare una delle composizioni di Berio più note ed amate, i Folk Songs, dovremmo soffermarci un istante su questo avverbio. Definita la musica “tutto quello che si ascolta con l’intenzione di ascoltare musica”, Berio non può ignorare che questa intenzionalità raggiunge proprio nella musica popolare alcuni i suoi picchi più intensi. Per questo motivo lo iato tra musica “seria” e popolare diviene più apparente che reale, e non si tratta allora di inserire citazioni o campionamenti, né di produrre collages musicali, ma di avventurarsi senza timori nello strato viscerale, reale o presunto, del folk song. Reale o presunto perché il gioco dell’apparenza, che scardina il mito dell’autenticità, è qui totalmente asservito alla musica, sovrana assoluta: delle canzoni che ascolteremo, le prime due sono composizioni, altre due sono dello stesso Berio, mentre l’ultima è stata estrapolata da un disco (senza conoscerne la lingua, l’azero) da Cathy Berberian, musa vocale e consorte del compositore. Berio mette per così dire l’abito buono alla musica popolare nel momento in cui la conduce per mano nella sala da concerto, (tra-)sfigurandone i contorni ma preservando, anzi esaltando, quell’espressività ora soave, ora invece impervia che a tratti esplode attorno all’acerbo, impietoso ritmare della lingua. E non dobbiamo mai smarrire, in questo percorso, la voce degli strumenti musicali, che non ‘accompagnano’ affatto il mezzosoprano quanto piuttosto scolpiscono tracce e scavano sentieri nello spazio aperto dal canto, cospirando a condurci quasi fino alla soglia di significati che sempre ancora ci sfuggono.


L’incompletezza è un tratto ineluttabile per la nostra cultura. Si tratti di edifici, sculture, o scritti, i reperti dell’antichità ci giungono spesso, per non dire quasi sempre, dopo che l’inclemenza dei secoli ne ha intaccato l’unità originaria, talora infierendo in modo impietoso. In altri casi sono invece la brevità o le vicissitudini della vita umana a far sì che un’opera rimanga in uno stato incompiuto, cosa di cui anche la musica può offrire illustri esempi come Schubert, Bruckner o Mahler. La riflessione sull’incompiuto – ovvero, letteralmente, su ciò che è imperfetto – eccede quindi i limiti della filologia, della museologia o della tecnica di conservazione e restauro, per assurgere invece a domanda universale su quanto prodotto dall’uomo, sui suoi limiti e le sue prospettive.

Con questi Tre ritratti incompiuti per orchestra d’archi il compositore Fabio Nieder, triestino di nascita e affermato sulla scena internazionale, ci accompagna in questa riflessione. Che l’incompiutezza sia qui intenzionale, anziché frutto di casualità, non va affatto a discapito del valore emblematico dell’opera, che anzi ne guadagna. Altrettanto sia detto del rimando alla dimensione pittorica – il ritratto – che fa pensare a volti i cui tratti si perdono o confondono nel ricordo.

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