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Serse

Quando ancora un po’ tutti intendevano fare pittura rorida e materica, piena di gesto e di colore, di masse e di grumi, con roboanti pretese mitologiche o allusioni concettuali talmente sottili da risultare impalpabili, ecco, Serse lascia da parte pennelli e colori e riprende a disegnare con la sola grafite. Era il 1988, sono passati quasi quarant’anni, e se nel frattempo poco nel suo lavoro è cambiato, molto invece è accaduto nel suo vissuto d’artista, che da tempo ormai detiene uno standing internazionale. Il problema di fondo nel lavoro di Serse è di tirare fuori dalla realtà ciò che è manifesto (la sua apparenza) e ciò che è nascosto o latente. È una questione che da Klee in poi si sono posti un po’ tutti gli artisti che hanno consapevolmente affrontato il tema della figurazione. L’immagine rappresenta non già la forma o le sembianze esterne di un oggetto quanto piuttosto quelle funzioni di crescita, di dinamica e di flusso che danno vita alla forma. È questo il modo di intendere uno degli aforismi più belli e solo apparentemente semplice di Klee: «L’arte non ripete ciò che è visibile, ma rende visibile». La forma è quella della natura morta, dell’oggetto arrestato nel suo processo naturale; la figura, invece, è legata alla continuità dinamica dell’essere vivente. Nel lavoro di Serse tutte le cose, anche la più stabile configurazione di un oggetto isolato, vivono di questa continuità dinamica. Ed è merito della tecnica da lui adottata e difesa in tutti questi anni: il disegno.

La pratica è riflessiva e paziente; adotta materiali poveri come la grafite e la carta, e presuppone una postura umile – l’artefice chino sul tavolo da disegno, alla maniera di un copista medievale nello scriptorium: nessuna concessione al gesto eroico e spadaccino del pittore al cavalletto.
Il colore impiegato è solo uno, il grigio della grafite portato per via di strati al nero, ma diventano due contando il bianco o l’avorio della carta, quindi alla fine sono tre, e cioè il bianco, il nero e tutte le sfumature intermedie, e insomma in realtà i colori sono e restano infiniti.
Prendono così forma le diverse serie in cui si organizza il processo di osservazione e di interrogazione della realtà.

Nei Paesaggi romantici compaiono visioni del sublime, non dissimili nello spirito dagli Alpenlandschaften dell’Ottocento realizzati da quei pittori tedeschi e svizzeri come Caspar Wolf, Carl Blechen o Ferdinand Hodler, dinanzi allo spettacolo delle cime alpine innevate.

Nella serie A fior d’acqua lo sguardo invece si abbassa, scorre lungo la superficie dell’acqua, ne indaga i fluttui e i vortici, le tensioni e le increspature. I riflessi che tanto avevano suggestionato i pittori ad Argenteuil o alla Grenouillère perdono la loro sostanza cromatica, e con essa ogni pretesa di restituzione naturalistica; in suo luogo, tutti questi fogli pronunciano una inappellabile sentenza.
Portata al limite stesso delle possibilità descrittive, si afferma la natura sostanzialmente non rappresentabile in termini di «forma» reale. L’illusionismo della rappresentazione si conferma come tale e così esprime in figura la sua stessa negazione. Ambienti e cose di apparenza iperrealista si contraggono e si ripiegano a mondo interno, che si può ripercorre passando attraverso interstizi, lame di luce, sfaccettature. Dettagli di un tutto che non è dato, a quelle condizioni, di poter cogliere come totalità. Ogni immagine resta dunque l’immagine di un’assenza, ma queste immagini lo sono ancor più. E l’assenza principale è quella della figura umana.

Al suo posto prevalgono perlopiù sostanze fluide e incorporee. Disegnare il vapore delle nuvole o il velo dell’acqua conduce a svelare, nel tempo, le due facce della stessa realtà che resta quanto più ambigua ed enigmatica quanto più restituita nella impeccabile verosimiglianza. Crediamo di vedere tutto, e di vederlo bene. In realtà vediamo molto poco, quasi nulla: ma di quello restiamo appagati.

La questione non è dissimile quando la grafite restituisce anziché i riflessi evanescenti di fluidi e vapori, la sostanza dura e compatta del cemento (quello della Tomba Brion di Carlo Scarpa, non a caso messo a riflesso sull’acqua) e ancor più del diamante. Diamante che ha con la grafite una singolare reversibilità. Entrambi sono infatti composti di atomi di carbonio che possono assumere forme diverse. In chimica si chiamano allotropi, ma per i nostri usi possiamo parlare di principio e di conclusione, sia per i valori di durezza sia per la scala del colore. Il nero profondo della grafite e l’abbacinante trasparenza del diamante altro non restituiscono che l’immagine metaforica dell’ombra e della luce. Ed è quanto determina il chiaroscuro, e con esso quel singolare illusionismo delle cose tridimensionali del nostro mondo riversate nel mondo a due dimensioni del disegno.

La francescana povertà di mezzi impiegati è la migliore eredità possibile, per la generazione cui Serse appartiene, di quella “povertà” messa in opera dall’ultima grande scena artistica italiana del Novecento ad aver avuto risonanza internazionale.

Semplicità di mezzi e attitudine mentale diventano i punti di accesso a un intero universo reso possibile dal disegno. Ma il disegno di Serse non è mai disgiunto dall’abilità manuale. Il foglio reca insieme all’immagine la traccia di un concreto operare fatto di tensioni, pause, densità, bilanciamento e pressione nella perdurante ispezione di tutte le possibilità d’incontro tra materia e supporto. Lo stesso Klee si accorse subito che nell’esperienza didattica del Bauhaus anche il più semplice dei gesti – quello, ad esempio, di tracciare una linea – era legato a un processo di consapevolezza fisiologica e corporea.

È dunque possibile proporre una ulteriore chiave di lettura, che alla natura concettuale dell’immagine concepita e disegnata fa affiancare le possibilità di un’opera d’arte intesa come frutto di precondizioni fisiche, come di recente ha scritto Andreas Beyer nel Il corpo dell’artista. Una foucaultiana “tecnologia di sé” che riscatta anche qui la secolare ostilità al corpo fisico dell’artista. L’atto creativo diviene una sorta di necessaria desublimazione. Il lavorio dell’artista si accentra entro il suo stesso corpo e nei processi a esso correlati. Di là da ogni umanesimo purificato è dunque possibile recuperare la natura viscerale dell’artefice, e collocare la figura del creatore nell’intersezione tra fisiologia, strutture sensoriali e dimensione psicofisica come totalità del corpo vissuto.

In questo paradigma interpretativo il gesto di maestria può anche essere letto, prima ancora che come segno o rivelazione del divino o dell’ispirazione, come consapevole triangolazione tra occhio, mano e prodotto finale, un po’ come ha dimostrato Richard Sennett ne L’uomo artigiano. Tale consapevolezza ha determinato in Serse una forma potente di autoaffermazione. Per usare le sue stesse parole: “sento il disegno come letteratura per laici che non sanno comprendere la scrittura, un disegno paziente mai disgiunto dall’abilità manuale, dove la mano testimonia l’ultimo residuo di corporeità dell’immagine da comunicare ai nuovi laici analfabetizzati dal digitale”.

Spontaneità e ispirazione nella creazione; esigenza del sentimento, prima ancora che delle regole davanti all’opera d’arte; attenzione al modo di sentire dell’artista. Sono temi che aveva enunciato all’alba del romanticismo (e cioè della nostra stessa modernità) Wilhelm Heinrich Wackenroder negli Sfoghi del cuore di un frate amante dell’arte (1797): «Se per lungo tempo l’artista non può fissare le immagini che un celeste raggio di sole gli pone nell’animo, viene il momento in cui senza accorgersene ha compiuto il lavoro, e un chiaro splendore lo avverte del miracolo avvenuto».

Alla fine di tutto la creazione resta un miracolo. Non esistono “segreti degli artisti” né regole, sistemi o precetti assoluti della bellezza, e se pure ci sono abbiamo il lusso di poterli trascurare. Esiste invece il valore assoluto della personalità dell’artista e dell’infinita varietà dell’arte e della natura.

Ed ecco, dinanzi ai paesaggi e alle vedute, ai veli d’acqua e alla architetture incombenti, riterrei infine quasi doveroso ricollegarsi allo Schelling del Rapporto tra le arti figurative e la natura (1807). L’arte non è un’imitazione della natura ideale, poiché l’artista non imita la natura, ma rivaleggia con essa nel creare. L’uomo è una creatura che crea: e nel disegno impiega luce e ombra, mezzi incorporei e spirituali.

Alessandro Del Puppo
Università di Udine

Opuscolo digitale dell’artista
RELAZIONI D’ARTE. Serse. Le ambiguità della rappresentazione (units.it)

copertina Serse
foto Serse Roma

1952, San Polo di Piave (TV); vive e lavora a Trieste dal 1980

Serse Roma è concentrato esclusivamente sul disegno a grafite su carta l’artista, triestino di adozione, ha prodotto negli anni una serie considerevole di immagini che gli hanno valso l’inserimento nel volume Vitamin D, New Perspectives in Drawing, edito dalla Phaidon Press, Londra (2006), e un capitolo nel nuovo saggio di Lorand Hegyi Drawing in the Age of uncertainty, edizioni Silvana (2021), nonché la partecipazione a rassegne internazionali di grande rilievo Pastels du 16°au 21°siècle alla Fondation de L’Hermitage di Losanna.

Una selezione delle sue mostre personali più recenti comprende: Riddle in Water, K.Gallery, Chengdu 2024, Cina; Breadth and Vastness of pure vision, Galleria Continua, Pechino, Cina; Fogli d’acqua, Galleria Continua, Roma 2020; Water Veils, Modern Studio, Shanghai, Cina, 2019; Inner Remoteness, Vision beyond the horizon, Tan Guobin Museum, Changsha, Cina 2017; Aquí todo es abierto. Nada es cercando, nada es lejano, Museo Nacional De Bellas Artes, Havana, Cuba 2017; As far the eyes can see, Galleria Continua, Beijing, 2016; Paysage Analogue dessins 1994-2014, Musée d’Art Moderne et Contemporain de Saint Etienne, 2014 Francia; Serse-Koh-i-noor, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Rimini, 2012; Geometriche dissolvenze, Ex Pescheria, Trieste, 2010.

Il suo lavoro è contraddistinto da una coerenza e riconoscibilità che ne fanno un unicum nell’odierno panorama nazionale. Non si tratta, nel suo caso, del disegno quale strumento classico per l’elaborazione dell’impalcatura invisibile di un dipinto, e non si tratta nemmeno dell’utilizzo che ne fanno molti artisti contemporanei come appunto visivo precario e fragile. In Serse Roma è l’opera nella sua assoluta compiutezza ad essere dovuta al solo disegno, al ‘non più di questo’ che il disegno rappresenta: strumento sottoposto ad una analisi vertiginosa che ne sonda tutte le potenzialità. Dalla grafite di Serse Roma è scaturita una delle più intense riletture del tema del paesaggio nell’arte contemporanea: Mari, Cieli di nubi, Montagne altissime, Boschi innevati, Canneti, Riflessi d’acqua. Cioè la dimensione non umana, sublime, della terra nella sua condizione elementare delle cose prime e ultime. Quasi fosse possibile sondare, attraverso la concreta materialità della grafite, l’anima minerale della terra, le cui trasformazioni avvengono su una scala temporale che non è quella antropologica. Negli ultimi anni Serse Roma ha approfondito ulteriormente quanto poteva essere incluso, o comunque riportato, a quella grafite che ne ha segnato la carriera. Il richiamo alla condizione minerale della grafite si traduce nella stupefacente serie dei Diamanti, la cui forma perfetta e inalterabile rimanda all’origine cristallografica delle forme primarie della geometria e del costruire. Ritorniamo così alla riflessione di Serse sul suo strumento, il disegno a grafite: materiale che per propria natura richiama quella dimensione minerale (grafite e diamante sono forme allotropiche del carbonio) di una non solo umana geometria del costruito.

Tra le più recenti mostre collettive alle quali ha partecipato: Por siempre una y otra vez Galleria Continua, Havana, Cuba, 2020; Intriguing Uncertainties curata da Lorand Hegyi, Parkview Museum, Pechino, 2019, Singapore 2018; Il Terzo Giorno, Palazzo del Governatore, Parma, 2018; Follia Continua!, Le Centquatre Paris, Parigi, 2015; Krobylos un groviglio di segni. Da Parmigianino a Kentridge, FAR | Fabbrica Arte Rimini, Rimini, 2014; Donation Florence et Daniel Guerlain, Centre Pompidou, Musèe National de «Art Moderne, Parigi, 2013, Land In Land Out, Gallerie degli Uffizi, Firenze, 2024.

È rappresentato dalla Galleria Continua: San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana / Roma / Paris / Dubai / Sao Paulo.

Ph. Francesco de Angelis, Roma 2000

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